Ormai lo sapete, sono affezionata a Il sale di Jean Baptiste Del Amo e a Neo edizioni, la casa che lo ha pubblicato. Sono legatissima a questo romanzo doloroso perché ha segnato il mio ingresso nella comunità di lettori Billy – il vizio di leggere. Un posto in cui mi sento a casa e che in questi anni mi ha regalato tantissimo. Oggi vi regalo questo incipit e vi invito caldamente a leggere questo libro, lo amerete.
Si svegliò con la certezza che i bambini dormissero ancora. La prospettiva della cena prese forma nella sua mente e, con essa, la sensazione di questa presenza, quella dei ragazzi nelle loro camere all’altro capo del corridoio, i loro corpi nascosti sotto le coperte.
Un giorno sfilacciato scivolava dalla finestra e si infrangeva sullo spigolo del comò. L’alba bagnava la camera. Dalla casa, non sentiva il rumore delle onde, ma le arrivarono le grida dei gabbiani. Se le persiane non erano chiuse, e il giorno la trovava allungata sul fianco – il viso rivolto alla finestra – una delle prime immagini che distingueva, aprendo gli occhi, era il volo alto degli uccelli sopra un quadrato di cielo sul muro. Una carovana di nubi ci stazionava, a volte. Se le mattine erano grigie, Louise ci vedeva come un riflesso del mare, una schiuma che poteva essere bianca, o anche nera. Ma poco contano, in verità, le brezze marine: gli uccelli non cessano mai di dominare la città. Qualsiasi cosa accada alla gente del mare, loro sventrano il cielo comunque. La loro costanza le piaceva, niente poteva turbare le loro evoluzioni aeree. Normalmente non sentiva i loro richiami – l’abitudine li fondeva in un quadro sonoro e familiare – ma quella mattina i gabbiani sembravano raddoppiare gli sforzi per strapparla al sonno. Può darsi che il vento soffiasse verso la casa, portando il loro concerto fino a lei. O, magari, era colpa dell’inquietudine per quella cena che già l’aveva tormentata tutta la notte.
Aveva sognato che erano tutti a tavola in una cucina. Non era certamente la loro, ma era conosciuta. Armand discuteva con i ragazzi. Lei non vedeva i loro visi, e non avrebbe saputo definirne l’età. Louise non sentiva le parole di Armand distintamente; era contrariata di questo e si convinceva che parlasse di lei, criticando il cibo o lo stato della casa. Poi si rendeva conto dello sciabordare dei propri passi, mentre camminava dal tavolo al lavello. Louise abbassava lo sguardo e vedeva una pozza d’acqua allargarsi sotto la tavola, sul pavimento, senza che nessuno se ne curasse. Armand continuava a borbottare cose incomprensibili e i bambini restavano immobili e accigliati. L’acqua non smetteva di salire e le arrivava presto alle caviglie. Louise pregava i ragazzi di reagire, di dirle cosa stesse succedendo, ma nessuno si degnava di rispondere. Tutti fissavano Armand, pietrificati. Si ricordò della paura implacabile all’idea che quell’acqua – che non smetteva di salire – stesse minacciando la tavola, il pasto e la famiglia. Nell’indifferenza di tutti, Louise cercava l’origine di quella perdita, e scopriva stupefatta che l’acqua sgorgava da Armand. Colava dalle gambe dei suoi pantaloni, dal collo e dalle maniche della camicia, dalle sue labbra di cui non riusciva, però, a distinguere i movimenti. Poi, come a volte avviene nei sogni, prese coscienza dell’assurdità della scena: doveva svegliarsi. Armand era morto, lui e i suoi figli non potevano essere riuniti a tavola. Quella cucina l’aveva creata lei, da cima a fondo. L’acqua che raggiungeva le sue ginocchia era priva di consistenza. Ecco il sogno da cui Louise riuscì a riemergere diverse volte, la notte che precedette la cena. Si svegliò nell’umidità delle lenzuola, poi ripiombò in un sonno approssimativo.
*
Che i ragazzi fossero ancora nei propri letti – benché avessero lasciato la casa da così tanti anni, e che, allo stesso tempo, quel giorno si sarebbe tenuta la cena che lei aveva programmato – non la turbava. Trovò in questo paradosso, lontano da qualunque nozione del tempo, una gioia simile a quella che provava quando, dopo che Armand era uscito per il porto, i bambini le invadevano camera, la mattina. Subito svegli, scivolavano tra le coperte e la avvolgevano con il calore della loro carne. Solo il torpore consentiva a Louise l’occasione di rivivere questo ricordo. Aveva bisogno di sfuggire al presente, di lasciarsi cullare nell’incoscienza per sentirsi ancora viva. Provò a prolungare la percezione della loro presenza, ma la fondatezza della camera acquistava corpo, mentre le veneziane affettavano lame di giorno e disegnavano rosse intermittenze sul suo braccio ripiegato. Louise rinunciò, suo malgrado, all’idea dei loro letti, dei loro visi assonnati nel riquadro della porta. Tutt’attorno, la casa aveva il silenzio e la fissità di una stele funeraria. Dalla camera, immaginò il dedalo delle stanze con la sensazione di abitare una carcassa, un relitto decisamente troppo grande. Altri hanno provato a dire del vuoto che lasciano le partenze.
Louise si sedette sul bordo del letto. La camicia da notte le risalì sulle cosce. Accarezzò la moquette con la pianta dei piedi. Decise di spalancare le finestre, di sbattere i tappeti prima di sera, di andare al mercato; pianificò quelle cose insignificanti di cui le donne della sua età hanno bisogno. L’arrivo dei ragazzi la preoccupava. La loro presenza in casa era dolorosa. La desiderava, allo stesso tempo – ed era su sua richiesta che sarebbero venuti quella sera – ma le apparivano brutalmente in una stanza o nell’altra, così smisuratamente grandi che metteva in dubbio di averli partoriti. Vedeva degli sconosciuti. È naturale, comunque, che i figli, dal momento in cui vengono estratti dalla carne materna, non smettano mai di allontanarsi e di essere sempre più indipendenti ed estranei. Louise non ci pensava precisamente, si accontentava di osservare il giorno spuntare dalla finestra e di mettere ordine ai prossimi gesti.
Il giorno prima, aveva cominciato ad avvertire nelle dita quella tensione, una rigidità delle mani, familiare e temuta. Era stato dopo che aveva telefonato a Jonas. Aveva riagganciato e, lasciando andare troppo bruscamente il ricevitore, aveva capito che la crisi non era lontana. Durante la notte le cose erano peggiorate, e da loro poteva dipendere la confusione dei suoi sogni. Louise prese le compresse di Artiglio del Diavolo nel cassetto del comodino, pur sapendo che sarebbe dovuta passare agli anti-infiammatori. Già le sembrava che un filo metallico bucasse la pelle delle sue dita e le forasse coscienziosamente ciascuna delle articolazioni. I suoi movimenti erano maldestri.
L’arrivo dei ragazzi la elettrizzava, in ogni caso; si sentiva ormai sveglia e non voleva abbattersi per i dolori alle mani. Un avvenimento eccezionale può regalare alle ore banali che lo precedono un sapore speciale o, per contrasto, farle apparire ancora più insipide. Senza essere fisicamente là, i ragazzi disegnavano alla giornata quei contorni che permettevano a Louise di prendere le misure del suo quotidiano. La noia tingeva i suoi giorni come un nucleo di abitudini impossibili da soverchiare. Lei non se ne lamentava e non aspirava, in verità, a nient’altro. Una specie di perenne apatia delimitava la sua esistenza. La sua vita, per quanto ci pensasse, era un paesaggio senza asperità, senza alcuno di quei momenti che amiamo ricordare come fatti straordinari, senza vette dalle quali l’avrebbe contemplata da nuove angolazioni. Le immagini continuavano a gettarsi sulla soglia della sua coscienza, senza mai un’onda più alta delle altre. La sua esistenza poteva essere l’eternità come un secondo. Ripensò alla guazza salmastra che avvolgeva Armand di ritorno dal porto. Senza dubbio, le tornava in mente perché, al di là della finestra, in secondo piano, il porto si svegliava – se mai si era addormentato – assieme a lei. Louise immaginava le reti stese e poi issate a bordo dei pescherecci, l’affaccendarsi dei marinai, lo scaldarsi delle voci, l’odore della loro pelle, poi quello, ferroso, sulle loro mani, delle interiora dei pesci. Non aveva mai capito l’eccitazione verso il mare eterna mente rinnovata. Gli uomini ci vanno come vanno a donne; si stancano delle donne, ma mai del largo. Pensava ad Armand senza pensarci veramente; gli scomparsi ci abitano senza fine. Non sono un’immagine, ma un’impronta indelebile; un velo tra noi stessi e il mondo, che lo colora, a suo modo, di un’aspra malinconia. Ormai niente le arrivava, nessuna immagine, nessun suono, nessun sentimento, senza essere impastato del ricordo di Armand.
Si alzò e s’infilò una vestaglia, le pantofole che aveva allineato ai piedi del letto, poi tirò lenzuola e coperte, allisciò appena la trapunta. Non prestava più attenzione alla stanza attorno a sé, ai muri ingrigiti e crepati, al tessuto grossolano della moquette beige; era una camera desueta in cui le strisce di tappezzeria ingiallivano, in cui ogni scampolo di giorno la vedeva immortalata come in una Polaroid. Le sue dita prendevano l’aspetto di artigli. Louise rivide Armand strappare uno a uno i bambini fuori dal loro letto. La rimproverava rudemente di essere pigra: «Gradirei che i miei ragazzi non crescessero in mezzo alle gonne della madre».
Era entrato in camera, murato nel suo silenzio di marinaio – Louise definiva così il mutismo nel quale si era così spesso rinchiuso, senza che fosse possibile raggiungerlo – poi era venuto verso il letto, mente le lenzuola, e aveva tentato a casaccio di afferrare gambe e braccia dei bambini. All’inizio avevano riso, e lei con loro, pensando che lui si prestasse a uno dei loro soliti giochi, ma Louise si era subito bloccata riconoscendo quello che i bambini ancora non capivano: la fissità del volto di Armand. Era accaduto spesso, nel corso della loro vita in comune, che suo marito si assentasse da sé. Il suo carattere cambiava. Oceanico, pensava lei. Si oscurava e faceva pensare che un’onda di marea lo avesse allontanato dal suo involucro di carne. Davanti a loro non restava che una scorza, il vuoto e l’ostinazione del suo sguardo. Dovevano aspettare la risacca, il momento in cui sarebbe riemerso il marito e il genitore.
La scena che Louise ricreava, sistemando le lenzuola sul letto, era uno di quei momenti in cui Armand aveva ceduto il campo all’uomo-scorza. I bambini avevano capito che Armand cercava davvero di ghermirli, appena lei aveva smesso di ridere e pronunciato in tono inusuale il nome del padre, nel tentativo vano di calmarlo. Le sue mani larghe, ruvide, avevano afferrato Albin e Jonas per tirarli fuori dal letto. Louise conosceva la rudezza di quelle mani sulla sua pelle. Lei le conosceva, di volta in volta, lascive o autoritarie, e la violenza dei gesti assestati in silenzio sul liscio candore delle afferrando rabbiosa membra dei ragazzi l’aveva disarmata. Armand aveva deposto i bambini nel corridoio e loro avevano riguadagnato le proprie camere, l’odio per il padre che gonfiava i torsi stretti, le loro braccia marmorizzate dalla presa delle sue mani.
«Una banda di piattole» aveva detto Armand. «Le ramanzine sono sprecate…»
Mentre Louise finiva di rifare il letto, l’inquietudine l’assalì alla gola. Armand si era frapposto tra lei e i suoi ragazzi. Pur essendo scomparso, era ancora fra loro il suo ostacolo ineludibile. Per lei sarebbe stato comunque impensabile circoscrivere il suo sposo al ruolo nel quale Jonas, per esempio, condannava il ricordo del padre. Armand era un essere particolare, Louise non aveva la pretesa di averlo conosciuto. Avevano vissuto l’uno accanto all’altra, non condividendo, in realtà, che dei brevi istanti, dei bagliori fugaci che li avvicinavano. Da questo, come avrebbe potuto affermare di conoscerlo? Louise voleva credere che l’immagine più prossima all’uomo che era stato, si trovava alla confluenza dei ricordi di tutti loro, dei suoi e di quelli dei suoi figli, ma era probabile che Armand, nonostante tutto, riuscisse ancora a sfuggirgli. Dopo aver rifatto il letto, rimase ai suoi piedi e scrutò la camera, le dita ripiegate verso i palmi delle mani. Gli oggetti qui erano cristallizzati, le sembrava che spostare quel soprammobile su quello scaffale avrebbe richiesto uno sforzo di cui non sarebbe stata capace, indipendentemente dall’artrosi che la logorava. Non aveva più la forza di lottare contro la casa, di piegarla alla sua volontà. Lasciare la camera quella mattina significava tuffarsi nella vita, accettare l’incombenza della cena e affrontare i preparativi con la volontà di una madre pronta a farsi in quattro per ricevere i suoi cari. Louise immaginava con esattezza la serata a venire, prima dell’arrivo dei ragazzi. La lampada del portico l’avrebbe avvolta di luce arancione. Lei avrebbe nascosto le mani, intrecciato le braccia dietro la schiena perché loro non vedessero l’arrossamento delle dita. Si sarebbe tesa solida nella pozza di luce gettata al suolo, sulla trama delle piastrelle. Sarebbero arrivati uno alla volta, o magari tutti insieme. Disordinati, come ciascuna delle loro esistenze, o riuniti da una puntualità casuale. Sperava che il loro arrivo sarebbe avvenuto in quel modo, fedele agli istanti che li avevano raramente uniti. Avrebbero camminato verso di lei, i suoi figli, la sua carne, le sue vite ancora da vivere. Il suo sguardo li avrebbe avvolti di dolcezza. La ghiaia scricchiolante sotto i loro passi, cullati dalle proprie illusioni, avrebbero sentito il suo amore addensare la notte e cingergli i cuori.
Penserà: “Ho fallito nel proteggere le macerie delle loro vite? Sono anch’io, come tutte le madri, una perdente?”
Sorriderà, nonostante tutto, consapevole dell’aura magica che avvolgerà le sue spalle perché, per una volta ancora, loro la credano indistruttibile.
( Qui la mia recensione )
Il sale
La trama
"Il sale" narra di un'unica giornata della vita di Louise e dei suoi tre figli, Jonas, Albin e Fanny. Vite legate e corrose dalla salsedine che respira dal mare di Sète lungo il distendersi di una scrittura sensuale e materica. Col pretesto di una cena, l'anziana madre decide di riunire i figli, ormai adulti e lontani, nella casa paterna. Sembra una tranquilla occasione per rivedersi, ma l'attesa dell'incontro assume per ognuno le forme di un confronto definitivo. Ciascuno sprofonderà nel proprio passato e nei ricordi di una storia familiare problematica e misteriosa.
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