La bambina che amava troppo i fiammiferi
La trama
Una vasta tenuta di campagna, circondata da una fitta pineta. Un vedovo tirannico e folle lascia, alla morte, due figli selvatici, spiazzati di fronte al mondo: tutto quello che sanno degli uomini viene dalle sue parole, o dai romanzi cavallereschi scovati nella biblioteca del castello. Costretti, letteralmente, a "prendere l'universo in mano", faranno i conti con la realtà - negli occhi degli altri capiranno chi sono, e affronteranno i misteri micidiali lasciati in sospeso dal padre.
– Agghiacciante –
La bambina che amava troppo i fiammiferi di Gaétan Soucy (Marcos y Marcos) è un libro dal linguaggio volutamente oscuro, una storia che ci trascina a fondo, tra disgusto e pietà, un racconto complesso e doloroso.
Lo dico subito: ho fatto moltissima fatica a seguire il filo della storia e ammetto che, una volta terminata, ho dovuto chiedere chiarimenti a chi l’aveva già letto. Detto questo, riconosco il valore del libro ma io non sono riuscita ad apprezzarlo appieno.
La bambina che amava troppo i fiammiferi è narrato in prima persona, il protagonista è un ragazzino che vive con il fratello e con il padre. Non hanno nome, sono semplicemente fratello e fratello. La scena non si apre nel migliore dei modi: il padre è morto e ora loro due non solo devono fare i conti con il lutto ma anche con il mondo circostante. I due ragazzini infatti non sono mai usciti dal loro castello, se si esclude il medicante e uno strano essere che vive nascosto a casa loro, potremmo dire che non hanno mai avuto contatti con l’esterno.
Il ragazzino sta scrivendo una sorta di diario. Facile immaginarlo chino sotto al tavolo mentre in fretta e furia redige memorie sconnesse, violente, inesatte come le parole che adopera.
Che altro fare se non scrivere in questa vita? D’accordo, d’accordo, ho detto ‘le parole: bambole di cenere‘, ma anche questo è ingannevole perché alcune, quando sono ben allineate in frasi, ci danno una vera e propria scossa al contatto, come se si posasse il palmo su una nuvola proprio nel momento in cui è gonfia di tuono e sta per scoppiare. È la sola cosa che mi aiuti, questa. A ognuno i suoi espedienti.
Solamente quando il protagonista si recherà in paese per cercare una cassa in cui adagiare e successivamente seppellire il corpo del padre, scopriamo che questa non è la voce di un ragazzo ma di una ragazza. Lo scopriamo dalle parole delle persone con cui interagisce, sono loro a un certo punto a chiederle: “Perché ti riferisci a te stessa come un maschio?”.
E allora vi dirò avrei voluto non rientrare mai, non tornare mai,restare per sempre nel sentiero della pineta, tra tenuta e paese, essere la divinità segreta della distanza che separa tutte le cose, la fatina dei sentieri che non portano a niente.
E così, poco a poco, scopriamo che l’esistenza nel castello è fatta di orrore e soprusi. Ma anche in questo caso Gaétan Soucy non rivela nulla: è la protagonista che attraverso mezze frasi, parole scambiate o quasi inventate che mostra la violenza subita. Ma questo non è l’unico linguaggio conosciuto dai due fratelli. A prendere la parola sono anche le persone e i luoghi che forse non sono mai esistiti ma che rivivono grazie alla penna della protagonista:
E delle facce cominciavano a comparire nello specchio convalescente. Un’accozzaglia di volti, con il tumulto che pian piano cresceva. E gonne a non finire, e parrucche, e cavalieri in coda di rondine, magari, e la ressa cominciava a traboccare dallo specchio nella sala, che si riempiva e ne era invasa.
Definire folle questo racconto è riduttivo. I flashback tra presente e passato sono continui e rischiano di destabilizzare, ma soprattutto ci trascinano nel fango e ci costringono a guardare la sofferenza di una famiglia rovinata, marcia dall’interno. Trascinandoci così verso un finale inaspettato e non privo di dolore.
Non serve soffrire in eterno se si soffre per un minuto e in quel minuto si pensa che la sofferenza sarà eterna, ecchediamine.
E così torniamo alle domande iniziali, al senso e al peso delle parole. L’incendio che distrugge i libri del castello è qualcosa che va al di là dell’evento in sé, è un simbolo. Le parole prendono fuoco, spariscono, ma forse non tutte sono destinate a essere distrutte…
Sono duri a morire i dizionari, come se niente fosse hanno la calma cocciutaggine del legno da cui sono nati, gli alberi non potevano farci regalo più bello.
La bambina che amava troppo i fiammiferi è…
Agghiacciante. Ho trovato geniale la costruzione della storia, il fatto che questa bambina scrivesse, ricordasse e vivesse tutto insieme. Ho avuto però grandi difficoltà a seguire il filo. Si tratta di una fiaba gotica, oscura e i continui cambi di scena mi hanno destabilizzata. Credo semplicemente che non fosse il momento giusto.
Difficile (ma non impossibile) calarsi nei panni della protagonista, che vede comparire di fronte a lei personaggi che le sembrano tutti minacciosi. Il cavaliere, il mendicante, l’ispettore… è tutto nuovo e straniante per chi ha convissuto soltanto con: Padre, fratello e dizionari alla mano.
Consigliato per chi non ha paura di perdersi per strada, per chi ama le storie difficili, appassionanti, ricche di significati nascosti. Armatevi di pazienza e non fate come me, godetevi La bambina che amava troppo i fiammiferi.
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