Divisione cancro
La trama
Padiglione cancro - tradotto in Italia anche coi titoli Divisione cancro da Il Saggiatore (casa editrice) e Reparto C dall'editore Giulio Einaudi Editore- è un romanzo semi-autobiografico dello scrittore russo Aleksandr Isaevič Solženicyn (in Lingua russa Алекса́ндр Иса́евич Солжени́цын), Premio Nobel per la Letteratura 1970. Iniziato nel 1963 e completato nel 1966, nello stesso periodo della stesura di Arcipelago Gulag, nel 1967 fu diffuso nell'URSS tramite samizdat, ma bandito l'anno seguente. Fu pubblicato nella rivista letteraria Novyj Mir di Aleksandr Trifonovič Tvardovskij in edizione mutilata, priva degli otto capitoli iniziali. È la storia di un piccolo gruppo di pazienti del padiglione 13, il reparto oncologico di un ospedale dell'Asia Centrale sovietica, due anni dopo la morte di Stalin; largamente ispirata alle reali esperienze di Solženicyn che, uscito dal gulag in Kazakistan, fu mandato in un distratto rurale del Sud Kazakistan. Già nel Gulag Solženicyn sviluppò un tumore che, non diagnosticato, si espanse, rischiando di morire. Nel 1954, gli fu permesso di farsi curare in un ospedale di Tashkent, nell'Uzbekistan, dove il tumore andò in remissione. Le sue esperienze furono la base del romanzo, nel quale compaiono una fauna di personaggi, da coloro che hanno beneficiato del "sistema" comunista , agli oppositori, a quelli che si sono adattati acquiescenti. Solženicyn esplora la responsabilità morale di coloro che hanno eseguito le Grandi Purghe staliniane, quando milioni di individui furono uccisi, mandati nei gulag, o esiliati.
– Stupefacente –
Divisione cancro di Aleksandr Solženicyn (Il Saggiatore) è un viaggio molto impegnativo non soltanto per numero di pagine, ma per tematiche, e preferisco dirvelo subito. Mi sono innamorata di questo autore leggendo Nel primo cerchio (QUI trovate la mia recensione) e ho sentito il disperato bisogno di sapere di più, di leggere, di documentarmi. Immaginate il mio stupore quando ho scoperto che non è così facile trovare i suoi libri. Ho comprato questa copia, datata 1968, su eBay perché nei negozi e nelle librerie online non riuscivo a trovarlo. La prima edizione è ancora attribuita ad Anonimo Sovietico (Potete cercarlo in versione Einaudi con il nome di Reparto C).
Nel primo cerchio ci trovavamo al chiuso in una prigione ai piedi di Mosca, i personaggi sfilavano davanti ai nostri occhi e noi cercavamo di capire in quale si nascondesse l’autore. Tra discussioni che investivano filosofia, scienza e politica ci ritrovavamo immersi in una realtà in cui erano tutti vittime e tutti carnefici.
Ecco, in Padiglione cancro la situazione è la stessa, con la differenza che siamo nell’Asia sovietica, ma l’amarezza è maggiore. Siamo in ospedale e l’aria è ancora più viziata che nella prigione ma le analogie continuano. Esattamente come nei gulag, o nei gironi dell’inferno, chi eri prima di entrare lì conta fino a un certo punto: perché varcata quella soglia tu sei e sarai (anche quando ne uscirai) un ammalato. Funzionario, prigioniero, studente o contadino che cosa può cambiare?
L’impressione di trovarsi in una struttura militare è persistente. I medici sembrano, almeno all’inizio dei funzionari senza cuore con i loro camici, gli ammalati dei prigionieri con i loro pigiami.
Pàvel Nikolàevič Rusànov è il primo personaggio che incontriamo e no, non sarà il protagonista perché dividerà la scena con gli altri compagni di stanza all’apparenza così diversi da lui. Pasa è un uomo del partito, è quello che si reca in ospedale con il pigiama nuovo e la certezza di essere trattato da paziente speciale.
La «divisione cancro» era contrassegnata con il numero tredici. Pàvel Nikolàevič Rusànov non era mai stato superstizioso, non era neanche pensabile che lo fosse; tuttavia ebbe un tuffo al cuore quando si vide scrivere sul documento di ricovero «Divisione 13». Possibile non avessero avuto il buon gusto di segnare col tredici il padiglione delle protesi, magari, o quello delle malattie intestinali?
E così all’inizio guardiamo gli ammalati con gli occhi di chi non si vuole mischiare, gli occhi di crede di non avere un cancro. E proprio su questa parola gioca Solženicyn. C’ è chi non la pronuncia, chi è convinto di non avere quel tipo di malattia, chi invece usa l’ironia e deforma quella parola come il veterano Efrèm, chi invece alla fine deve ammettere di averla.
Ci sono persone (sì parlo di persone volutamente) che sentiamo di amare subito. E’ il caso di Vadìm giovane scienziato che guarda scorrere il tempo con una consapevolezza che lascia inevitabilmente turbati:
Fin dall’infanzia, Vadìm pareva presentire che il tempo non gli sarebbe bastato. S’innervosiva se un ospite o qualche vicino veniva a far perdere tempo alla mamma o a lui. S’indignava perché a scuola e all’istituto le riunioni – per il lavoro, una gita, una serata, una manifestazione – venivano indette un’ora o due prima del necessario, in previsione dell’immancabile ritardo della gente. Non sopportava i notiziari radio che durano per un’ora: era convinto che tutte le informazioni utili necessarie si potessero condensare in mezz’ora, il resto era solo un riempitivo. Si infuriava perché, dovendo comprare qualcosa in un negozio, si rischiava, una volta su dieci, di trovarlo chiuso per inventario, verifica, consegna di merci, senza che si potesse preavvisare la gente. Qualsiasi soviet rurale, qualsiasi ufficio postale poteva venir chiuso in qualsiasi giorno feriale; a distanza di venticinque chilometri non era possibile prevederlo.
Forse era stato il padre a inculcargli l’avidità per il tempo. Anche lui non amava l’inerzia, e Vadìm ricordava come una volta, tenendolo tra le ginocchia gli avesse detto: «Se non sai sfruttare il minuto, sprecherai l’ora, il giorno, tutta la vita.»
E ancora troviamo Dèmka, come non amare il sedicenne pieno di vita e di speranze che della vita ha visto ancora così poco? Il suo terrore più grande è che gli taglino la gamba ma la scelta tra vita e morte comporta delle rinunce e le spalle di Dèmka sono ancora così acerbe…
Potrei andare avanti ancora e ancora. Vorrei prendervi per mano e farvi camminare in quella corsia. Vorrei parlare con loro dei piccoli desideri: chi sogna di andare allo zoo, chi di bere vino, chi un’altra vita… ma ho paura di togliervi il gusto della scoperta. A primo impatto, proprio come quando si incontra qualcuno nella vita reale, mi sono fatta un’idea che poi a seconda dei casi ho cambiato o mantenuto.
Olèg Filimonovič Kostoglòtov è praticamente Solženicyn. Ex deportato è il personaggio più strambo e se all’inizio ci sentiamo un po’ diffidenti, perché lo guardiamo con gli occhi di Pasa, poi dobbiamo ammettere che dietro alle stranezze si nasconde molto di più. Cinturone e stivali, si aggira tra le corsie e non fa altro che fare e farsi domande. Prigioniero, ha avuto la possibilità di curarsi in ospedale che però non è il mondo reale e nemmeno quello che ha conosciuto lui.
Da molto tempo si era vietato di sperare. Non osava permettere a se stesso di rallegrarsi.
Nei primi anni di detenzione un novellino crede, ogni volta che lo fanno uscire di cella con la roba, che sia la scarcerazione, ogni bisbiglio sulle amnistie gli giunge come le trombe degli Arcangeli. Ma lo fanno uscire per leggergli qualche scartoffia, o lo trasferisco in un’altra cella, ancora più scura, al piano inferiore, con la medesima aria irrespirabile. Le amnistie vengono rimandate: dall’anniversario della Vittoria a quello della Rivoluzione, dall’anniversario della Rivoluzione alla sessione del Soviet Supremo; finiscono in bolle di sapone o vengono promulgate per i ladri, i furfanti, disertori, non per chi ha combattuto e sofferto.
Le cellule del cuore, create dalla natura per la gioia, divenuti inutili, si atrofizzano. Le cavità del petto dove alloggia la fede, con gli anni si svuotano e disseccano.
E infine non posso non parlarvi della dottoressa Vèra Kornìl’evna Gangart, più semplicemente Vega. Non posso dimenticare il suo modo di guardare Olèg, non posso dimenticare il suo ritorno a casa in una stanza buia con soltanto la luce della radio a tenerle compagnia. Non posso scordare il peso della fatica sulle spalle, la solitudine che si fa spazio nel cuore, la timidezza, le occasioni perdute, i sogni platonici di futuro.
Anche questa volta Solženicyn mi butta in Divisone cancro e io non ho scelta, sono sdraiata anche io su quel letto a chiedermi di cosa vive l’uomo, sono lì a scrutare quella dottoressa che a parte il camice ha la stessa espressione dei malati. Sento il ronzio della macchina per fare i raggi, faccio le domande di Olèg, mi preoccupo per gli ormoni… e ancora penso ai pazienti che non ce l’hanno fatta, a chi è stato curato con i raggi senza un reale motivo, penso al modo di vivere degli occidentali come una minaccia (la superficialità è la più grande) rifletto sull’egoismo, assaporo la libertà.
Ma come? La gente marciva nelle trincee, veniva buttata nelle fosse comuni, in buche superficiali nei geli perpetui del Polo, la gente veniva mandata nei campi di concentramento una volta, poi una seconda, e una terza, migrava di tappa in tappa con i galeotti, si sfiancava col piccone in mano per comprarsi una giubba rattoppata, e quello smorfioso non solo ricordava il numero della sua camicia ma anche quello del colletto? Il numero del colletto era l’ultima goccia.
Divisione Cancro è…
Stupefacente. Mi sono dilungata così tanto ma non mi sembrava mai abbastanza. E’ un viaggio impegnativo ma nessuno si deve spaventare. Ci tengo a sottolineare che non ci sono teorie filosofiche da sviscerare, riferimenti oscuri o di difficile comprensione. La difficoltà è legata senza dubbio alla quantità di personaggi e all’ambientazione. Siamo in un ospedale: medici e pazienti convivono con la morte. Alcune pagine sono strazianti e continuo a rimanere stupita dalla capacità di S. (come ormai l’ho ribattezzato) di calarsi nei panni di persone così diverse tra loro. In un capitolo siamo pazienti che soffrono, ognuno con la propria storia, e in quello dopo siamo dottori che con il sorriso spento rassicurano chi va a morte certa. Un valzer di voci e idee che dalla testa non escono più, un’instancabile ricerca sull’uomo e sulla propensione insensata alla crudeltà. Un’opera geniale che nell’ultima frase del romanzo tocca il punto più alto, spingendoci verso una constatazione tanto vera quanto amara.
Io non so perché questo libro sia finito chiuso nei cassetti, non so perché sia stato così difficile trovarlo, ma so che è senza ombra di dubbio un capolavoro e i capolavori non si possono ignorare.
Anche in questo caso i personaggi sono tanti e i nomi molto difficili. Non ho fatto fatica come Nel primo cerchio perché ormai sono entrata in modalità follia però ho trovato su Wikipedia un interessante specchietto che riassume tutti i personaggi che compaiono nel libro (Io lo ammetto, l’ho usato per copiare pari pari i nomi russi che nella mia testa avevo storpiato) molto utile per orientarsi, ve lo lascio QUI.
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