Il Tibet in tre semplici passi
La trama
A tre riprese, a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, Pierre Jourde va a esplorare le piste di Zanskar, vallata desertica dell'Himalaya a oltrequattromila metri di altitudine. Il Tibet in tre semplici passi racconta proprio quei lunghi peripli sotto forma di stramba epopea, descrivendo i tormenti, lo stupore e quanto di ridicolo potesse appartiene a dei ragazzotti occidentali di banlieue abbandonati a una natura smisurata. Gestita con grande maestria, una narrazione giubilante screziata di meta_sica e misticismo accompagnerà il lettore dentro un testo vertiginoso, in bilico tra romanzo di formazione e racconto di viaggi, non senza riuscire ricco di colpi di scena e altamente spiazzante. Ben lungi dalle ricette dell'esotismo _ne a se stesso e dell'ingenuità a ispirazione realista, questo romanzo si pre_gge di rendere sensibile il grande enigma del mondo e della bellezza. Uno degli ultimi viaggi autentici, di un'epoca preglobale: senza rete. Una scrittura vivida alla Bouvier, ma che farà scoprire anche un altro aspetto intrinseco dell'avventura: l'umorismo.
– Incanto –
Il Tibet in tre semplici passi di Pierre Jourde (Prehistorica editore) è un romanzo di formazione, di avventura ma al tempo stesso introspettivo e con un pizzico di filosofia.
Il Tibet in tre semplici passi è un libro che contiene moltissimi ingredienti pur essendo così breve. Centosessanta pagine che scorrono tra malinconia e sorrisi.
L’avventura comincia con quattro giovani francesi che partono alla volta dell’Himalaya. Questo è uno degli ultimi viaggi “pre – globali”. Jourde e gli amici riusciranno a raggiungere una zona praticamente sconosciuta, ancora incontaminata.
Ovviamente come tutti i giovani sprovveduti sono partiti con l’equipaggiamento sbagliato e le motivazioni giuste, alla scoperta di piatti culinari particolari e pericoli da sottovalutare, dando vita a un viaggio pittoresco e divertente.
Mi piace pensare che Il Tibet in tre semplici passi sia un libro flessibile, adattabile a più livelli di lettura. Un lettore può comodamente sedersi in poltrona e scoprire il Tibet con gli occhi di un ragazzo degli Ottanta, ridendo di disavventure e intoppi; oppure può abbandonarsi alla malinconia, accompagnando Jourde in una ricerca che sapremo già vana:
Quella strada perduta è stata la madre di tutte le strade che ho poi cercato per la loro difficoltà, per i paradossi e le loro pieghe, convinto che a furia di allontanarmi da me stesso mi avrebbero riportato alla dimora ignorata che era la mia. Ecco perché ce ne stavamo ammassati, come vedette ghiacciate, nella cassa gialla in cima a quel camion che inghiottiva lentissimamente un’infinità di altitudine.
Chissà se Jourde avrebbe compiuto lo stesso quel viaggio se non avesse perso le sue fotografie. Sì, perché in questo romanzo il nostro protagonista racconta di aver già affrontato delle avventure e di averle immortalate:
Tutto per una foto. Il mondo è fatto per finire in una bella diapositiva.
E il Tibet in tre semplici passi è una diapositiva ricchissima di spunti di riflessioni. Chi considera la narrativa di viaggio una categoria inferiore, leggendo questo libro dovrà ricredersi. Si può parlare del mondo, dell’uomo, fare letteratura parlando di un viaggio? Assolutamente sì, la risposta la troverete in queste pagine.
I fiocchi di neve mi si posano sul naso, sulle labbra, nel collo, come mosche carezzevoli ronzano sui miei occhiali da sole, inutili dato che non c’è più niente da vedere. Sembrano prodotti dell’eterna, glaciale pura decomposizione dell’enorme cadavere dello Scingo La. Sprofondo in un tenero sciame, scompaio, bottinato con dolcezza. E poi l’aspetto del ghiacciaio si presta così bene all’idea di passare dall’altra parte del mondo che il desiderio di quella trascendenza vada aggiungersi all’urgenza della sopravvivenza per darci la forza di continuare, ormai quasi alla cieca e così impantanati che come se andassimo per escursioni con uno scafandro
da sub.
Il Tibet in tre semplici passi si gioca tutto in questa contraddizione: ironia e profondità non possono che andare di pari passo, dando vita a un romanzo scorrevole e piacevole, ma senza rinunciare a un linguaggio ricco e ammaliante, da letteratura.
Il Tibet in tre semplici passi è…
Incanto. Sono rimasta folgorata e ho sottolineato tantissime citazioni Mi ha ricordato in un certo senso In Patagonia di Chatwin (LEGGI QUI la mia recensione), perché il viaggio è prima di tutto interiore.
I nostri ospiti sembravano conoscere il mondo, come un castellano del XVIII secolo che, dalla campagna in cui si è ritirato per la stagione, chiede notizie di Parigi. Le donne stesse non ostentavano la stessa timida distanza o il servilismo delle donne musulmane. Ci servivano, certo, ma la loro discrezione non escludeva alcuna libertà di comportamento, di parola o di risata. Niente patriarcato in quelle alte terre. Sapevamo d’altronde che nello Zanskar si pratica la poliandria, e una donna, poteva benissimo sposare due fratelli.Cominciavo a prendere le misure: la capacità di una civiltà ad ammettere l’altra, e di conseguenza la possibilità per un occidentale di entrare in un accordo profondo con essa pur restando se stesso, è inversamente proporzionale al livello di asservimento delle donne”
Di Pierre Jourde ho letto e amato (di più) L’ora e l’ombra (LEGGI QUI la mia recensione) e ammetto di aver avuto dei pregiudizi sul Tibet. Pensavo che mi sarei trovata di fronte a un resoconto e non sono un’amante della montagna né dei racconti di viaggio. Eppure, qui sono riuscita ad immedesimarmi, a scorgere qualcosa che andasse oltre alle descrizioni e parlasse di qualcosa, qualcosa che ho cercato anche io.
Consigliato per gli amanti della montagna, per chi non ha mai letto nulla come me, e per chi non ha paura di sperimentare. Viaggiare comodamente in poltrona è sempre una meravigliosa idea.
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