Io non mi chiamo Miriam
La trama
«Io non mi chiamo Miriam», dice di colpo un’elegante signora svedese il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, di fronte al bracciale con il nome inciso che le regala la famiglia. Quella che le sfugge è una verità tenuta nascosta per settant’anni, ma che ora sente il bisogno e il dovere di confessare alla sua giovane nipote: la storia di una ragazzina rom di nome Malika che sopravvisse ai campi di concentramento fingendosi ebrea, infilando i vestiti di una coetanea morta durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbrück. Così Malika diventò Miriam, e per paura di essere esclusa, abbandonata a se stessa, o per un disperato desiderio di appartenenza continuò sempre a mentire, anche quando fu accolta calorosamente nella Svezia del dopoguerra, dove i rom, malgrado tutto, erano ancora perseguitati. Dando voce e corpo a una donna non ebrea che ha vissuto sulla propria pelle l’Olocausto, Majgull Axelsson affronta con rara delicatezza e profonda empatia uno dei capitoli più dolorosi della storia d’Europa e il destino poco noto del fiero popolo rom, che osò ribellarsi con ogni mezzo alle SS di Auschwitz. Io non mi chiamo Miriam parla ai nostri giorni di crescente sospetto verso l’«altro» interrogandosi sull’identità – etnica, culturale, ma soprattutto personale – e riuscendo a trasmettere la paura e la forza di una persona sola al mondo, costretta nel lager come per il resto della vita a tacere, fingere e stare all’erta, a soppesare ogni sguardo senza mai potersi fidare di nessuno, a soffocare i ricordi, i rimorsi, il dolore per gli affetti perduti: «Non si può dire tutto! Non se si è della razza sbagliata e si ha vissuto sulla propria pelle l’intero secolo.»
– Memoria –
Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson (Iperborea) è un romanzo che difficilmente scorderò. Incalzante, duro e delicato allo stesso tempo.
L’argomento non è certo tra i più felici ma voi ormai sapete che sono un’appassionata di storie ambientate durante la Seconda Guerra Mondiale.
Quando io non mi chiamo Miriam si apre, la nostra protagonista è un’arzilla vecchietta che compie gli anni circondata dall’affetto della propria famiglia. Ma è proprio in questo clima di serenità e festa che si insinua una crepa. Quando i familiari le regalano un braccialetto con inciso il nome dell’amata, la vecchietta non si riesce a trattenersi: “Io non mi chiamo Miriam”.
Figlio, nuora e nipote, scambiano quella frase per un’eccessiva emozione o forse addirittura per la demenza che avanza. Ma Miriam è lucidissima, e lei non si chiama Miriam.
E così tra i ricordi che riaffiorano da soli e le confessioni all’amata nipote Camilla, la protagonista ammette di essere Malika, una rom che ha “rubato” l’identità di Miriam, una ragazzina ebrea morta sul treno che avrebbe portato migliaia (in realtà sappiamo milioni) di persone nei campi di concentramento.
Piano piano le altre donne smisero di parlare. Erano schiacciate le une contro le altre, alcune schiena contro schiena, altre faccia a faccia, e dondolavano un po’ a ritmo con i movimenti del treno, ma nessuna rischiava di cadere. Erano troppo ammassate. Alcune rivolgevano il viso verso l’alto succhiando un po’ dell’aria acidula e fresca che filtrava dai fori, altre si perdevano con lo sguardo, altre ancora chiudevano gli occhi infossati cercando chiaramente di addormentarsi. Era come se nessuna di loro fosse veramente lì, come se tutte, fino all’ultima, avessero smesso di esistere, come se fossero penetrate in un altro mondo e quel vagone, quel treno, quel viaggio fossero solo un abominevole incubo
Malika che veniva da un altro inferno, non ha fatto grandi calcoli: ha pensato che da ebrea avesse più possibilità di cavarsela. D’altra parte gli zingari sono guardati male dagli stessi ebrei.
L’autrice Majgull Axelsson indaga e illumina una parte di storia poco conosciuta: i rom furono esclusi anche dai risarcimenti. Come se le loro vittime valessero meno di quelle di origine ebraica.
Un orrore nell’orrore.
Miriam decide di mettere fine alla recita che ha condotto per anni con gli altri e con se stessa. Ora suo marito Olof non c’è più ma ad ascoltarla c’è la nipote Camilla che quando le chiede dei campi di sterminio si aspetta tutto fuorché la rivelazione sulla vera identità della nonna. Il compleanno dell’ottantacinquenne coincide con la liberazione, e quindi il superamento, del dolore.
Durante una passeggiata al parco Miriam, che torna ad essere Malika, racconta le scene raccapriccianti vissute nei lager. Ma non si lascia sfuggire nemmeno l’umanità e l’amore che sono emersi da quelle esperienze terribili.
L’amore per il fratello Didi, brutalmente ucciso da un esperimento. Il dottor Josef Mengele dispensava caramelle ai bambini che sottoponeva ad esperimenti, osservava organismi ancora viventi andare in cancrena. Impossibile leggere questi passaggi senza rabbrividire. Malika perde tutta la sua famiglia ma ne trova presto un’altra in Else.
Legandosi a un gruppo di norvegesi Malika, che per tutti è già Miriam, riuscirà a non cedere all’oblio. Else le darà un motivo per alzarsi ogni mattina, lavarsi i denti, lavorare…
E così tra presente e passato le pagine scorrono veloci, nonostante tutto. Certo, ci vuole impegno e determinazione per continuare a leggere Io non mi chiamo Miriam perché lo stile è asciutto e cristallino. Nulla viene risparmiato al lettore. Ammetto che non sempre mi sentivo pronta per continuare a leggere, la vita delle prigioniere è aberrante.
Nei campi è tutto grigio, le stanze, il paesaggio i volti e le nubi che vengono fuori dai camini. L’odore della paura, dello sporco e della carne bruciata sono reali e non possiamo fare altro che sforzarci di guardare in faccia il dolore. Proprio come Camilla.
Camilla fa una risatina. Stancante è l parola giusta. Poi dentro di lei si scatena il panico. Di colpose si spalma un baratro facendole intuire, sentire, capire e comprendere che tutto questo è successo per davvero, sul serio, nella realtà. Il nazismo. Auschwitz. Ravensbrück. Sua nonna ha addirittura conosciuto il dottor Mengele, quello a cui Camilla ha sempre pensato come una specie di personaggio delle fiabe, un morto vivente di un racconto dell’orrore, un mostro in uniforme nera che girava per Auschwitz mettendo a morte altri al posto suo. Invece è esistito. Sua nonna l’ha visto di persona, ha sentito la sua voce. E lei fa una risatina!
Il dolore di Miriam è duplice. Oltre ad aver sofferto le pene dell’inferno ha anche rinnegato le proprie radici e quindi una parte di se stessa.
Non si può parlare di tutto! Devi capirlo. Non se si hanno ottantacinque anni e si è della razza sbagliata e si ha vissuto sulla propria pelle l’intero secolo! In questo caso non si può parlare di tutto.
Sono così tanti i temi che vengono analizzati in Io non mi chiamo Miriam. La discriminazione nella discriminazione, il silenzio delle vittime liberate dai cambi che, come nel caso di Miriam, non hanno trovato orecchie per essere ascoltate. C’è anche un passaggio sulla rivolta dei rom che osarono sfidare e addirittura battere le SS. C’è l’identità, la paura, il dolore, l’accettazione.
Un viaggio impegnativo ma sicuramente necessario.
Io non mi chiamo Miriam è…
Memoria. Quella che non possiamo permetterci di perdere. Un libro che getta luce su alcuni aspetti di una storia che ancora non conosciamo del tutto.
Lo stile asciutto e quasi distaccato conferisce al romanzo una dimensione di realtà. Stiamo davvero leggendo i pensieri e i ricordi di qualcuno che ha subito angherie e soprusi soltanto perché di un’etnia diversa.
Sembra una banalità oggi giorno eppure sappiamo che non è così. L’orrore dei campi ci sembra così lontano eppure è qui, pericolosamente vicino a noi.
Io non mi chiamo Miriam è un libro per tutti i lettori ma non per tutti i momenti. Avevo bisogno di serenità e ovviamente non l’ho trovata perché non era questo l’intento del romanzo.
Lascia un commento