La morte del padre
La trama
“Intenso e vitale. Sempre avvincente. Superbo.” James Wood, The New Yorker “Scrivere significa portare alla luce l’esistente facendolo emergere dalle ombre di ciò che sappiamo. La scrittura è questo. Non quello che vi succede, non gli avvenimenti che vi si svolgono, ma lì, in se stessa. Lì, risiede il luogo e l’obiettivo dello scrivere. Ma come si arriva a questo lì? Era questa la domanda che mi ponevo mentre seduto su una panchina di quel quartiere di Stoccolma bevevo caffè e i muscoli si stavano rattrappendo dal freddo e il fumo della sigaretta si dissolveva in quell’enorme spazio fatto d’aria che mi sovrastava. Per molti anni avevo cercato di scrivere di mio padre, ma senza riuscirci, sicuramente perché tutto questo era troppo vicino alla mia vita e quindi non era facile costringerlo in un’altra forma, che invece costituisce il presupposto base della letteratura. È la sua unica legge: tutto deve piegarsi alla forma. Se qualcuno degli altri elementi letterari è più forte della forma, per esempio lo stile, l’intreccio e il tema, scavalca l’importanza della forma, il risultato sarà debole. Ecco perché gli scrittori che posseggono uno stile marcato scrivono spesso libri deboli. Ecco perché quegli autori che si occupano di argomenti e temi forti scrivono libri deboli. La potenza insita nel tema e nello stile deve essere spezzata affinché possa nascere la letteratura. È questa demolizione che viene definita ‘scrivere’. Lo scrivere riguarda più il distruggere che il creare.” Karl Ove Knausgård
La morte del padre di
(Feltrinelli) è il primo di una saga intitolata La mia battaglia, sì, come il libro di Hitler.Lo dirò subito: questo romanzo, che non è un romanzo, è una delle cose più strane che abbia mai letto.
All’incirca un anno fa mi sono imbattuta in un lungo articolo su Tuttolibri de La Stampa che raccontava l’impresa di quest’uomo dal cognome impronunciabile: in migliaia di pagine ha raccolto la propria vita e forse l’ha anche distrutta.
Ricordo che rimasi molto colpita: una volta usciti da questo incubo sarei andata in libreria e avrei comprato il primo volume.
Come spesso accade questo buon proposito è rimasto sotterrato insieme ad altri e numerosi acquisti hanno scavalcato il primo volume di
La morte del padre è un libro difficile da raccontare: mi sono sentita appesantita durante la lettura: c’è tanto dolore in queste pagine e le lunghe descrizioni forse non facilitano la lettura… eppure queste pagine sono volate.
Non dico mai quello che penso per davvero, non esprimo mai le mie vere opinioni, ma mi adeguo costantemente al mio interlocutore, facendo finta che quello che dice mi interessi, tranne quando bevo perché in quel caso esagero in senso opposto per poi risvegliarmi in preda all’ansia di aver ecceduto, sensazione che con il passare degli anni si è acuita sempre più e che adesso può durare settimane.
Karl Ove ha 39 anni quando comincia questa impresa e racconta un se stesso bambino, introverso e un poco solitario. Quando ha otto anni, crede di scorgere in meno al mare un volto: il servizio viene trasmesso al telegiornale e lui ha come una folgorazione. Nel raccontare l’episodio al padre si percepisce tutto il timore e le complicazioni alla base di questo rapporto.
Un rapporto che peggiora quando i sua madre e lo lascia solo con il padre. Forse è da quel momento che lui ha cominciato a bere: in casa non accende più il riscaldamento, non cucina, non si prende cura del figlio che per studiare si è trasferito non molto lontano.
Ne La morte del padre c’è tanto buio. Sono scure le ambientazioni, scure le case senza luci, scuro il vino nella bottiglia, le occhiaie, i rimpianti.
Quando La morte del padre si apre Karl Ove (questo è l’unico modo in cui riesco a chiamarlo) è già morto e noi facciamo continui salti indietro nel passato.
Niente può fermare gli enormi sciami di batteri che cominciano a diffondersi all’interno del corpo. […] Penetrano sempre più profondamente in tutto quell’umido, in tutta quella oscurità. Raggiungono i canali di Havers, le cripte di Lieberkühn, le isole di Langerhans. Raggiungono la capsula di Bowman del Rene, la colonna di Clarke del Midollo Spinale, la substantia nigra del Mesencefalo. E raggiungono il cuore.
Lo stile è molto descrittivo e asciutto. Mi rendo conto che alcune pagine possano essere decisamente pesanti eppure niente ha rallentato la mia lettura.
Leggere La morte del padre è come guardare qualcuno dal buco della serratura: c’è una sorta di piacere perverso nel leggere qualcosa di estremamente normale e al tempo stesso particolare.
Quando Karl Ove va a casa della nonna la scena che gli si presenta davanti agli occhi è apocalittica. Ci sono elementi, avvenimenti, che di solito teniamo nascosti. Non sarebbe moralmente corretto raccontarli, Karl Ove racconta tutto. Anche quello che non vorremmo leggere ed è qui, in queste pagine che la curiosità, proprio quando tutto sembra essere stato svelato, aumenta.
Non so se Knausgård ha scritto un capolavoro o uno strambo elenco di cose irrilevanti che gli sono accadute nella vita, ma so che ho comprato i volumi successivi.
So che Knausgård ha pagato un prezzo altissimo per raccontare la propria storia e il minimo che possa fare è leggerla.
La morte del padre è…
Un libro folle. Un flusso di coscienza che si snoda per cinquecento pagine. Avrebbe potuto scrivere un libro più breve? Credo di sì ma incredibilmente non si sente il peso di tutte quelle parole e rimane addosso la strana sensazione di aver intrapreso un viaggio che non si può interrompere.
Va bene Karl Ove, ci vediamo con Un uomo innamorato.
Consigliato per chi è alla ricerca di un libro sui generis, per chi vuole sperimentare, per chi non ha paura di guardare con così tanta insistenza le vite degli altri, che sono anche un po’ le nostre. Provando così quel senso di liberazione senza aver messo sul piatto nulla.
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