L'alveare
La trama
Popola l’alveare una folla di gente qualunque, che non ha perso la guerra ma che neppure l’ha vinta; gente che siede trasandata sulle solitarie panchine dei giardini pubblici, che vive nei falansteri condominiali privi di riscaldamento; gente che affolla i caffè delle vie del centro per stare un po’ al caldo, per confortarsi con un bicchiere e una sigaretta arrotolata, per scambiare quattro chiacchere con l’amico, con la fidanzata, con l’occasionale vicino; gente diversa, ciascuno con la propria storia: vedove, usurai, studenti falliti, serve, poliziotti, camerieri, bottegai, scrocconi, modesti impiegati. E, ancora disoccupati, magnaccia, prostitute e ragazze di famiglia che frequentano le case d’appuntamento per concedersi qualche piccolo lusso, per arrotondare l’esiguo salario. Emerge, in tutta la sua desolazione, uno squallido quotidiano, fatto di discorsi banali, di invidie meschine, di pettegolezzi, ma anche di paure, di dolori, di profonde angosce esistenziali. L’alveare è una città senza scopi e senza ideali, che vive alla giornata, priva di speranza e di voglia di sperare. Dove chi ha la fortuna di avere un impiego non lavora per quel futuro, per quella ricostruzione che si direbbe auspicabile dopo gli orrori della guerra, ma solo per sbarcare il lunario. Madrid, l’alveare: descritta con bonaria ironia, persino con sottile umorismo, con un linguaggio vivace, libero da schemi letterari, ricco di forme gergali, il linguaggio parlato per le strade e nei bar della Madrid del 1942.
– Immobile –
L’alveare di Camilo José Cela (Einaudi) è un romanzo sperimentale, un racconto a più voci che stordisce e incanta allo stesso tempo.
Primo incontro con il premio Nobel Cela, sono stata folgorata anche se, non ve lo nascondo, ho fatto fatica in molti punti. Per primissima cosa preciso che oggi vi parlo di un libro attualmente fuori catalogo (non odiatemi) io l’ho trovato su eBay e sono rimasta contentissima, sia per il contenuto del romanzo, sia per l’aspetto esteriore del libro.
Ma torniamo al punto. Perché ho fatto fatica? Perché in questo romanzo ci sono tantissime voci che si accavallano, si cedono il passo, ci confondono. Entrare ne L’alveare è come irrompere continuamente in un bar- osteria di paese. Entrando cogliamo parti di discorsi, urla e malesseri degli avventori.
Sono centinaia i personaggi si affacciano su questa scena caotica ma mai completamente oscura. A parlare è il popolo spagnolo del 1942. Sono stati tutti toccati dalla Guerra Civile e si percepisce perché l’atmosfera non può che è essere cupa e l’aria viziata.
Nel Caffè di donna Rosa, come in tutti i caffè, il pubblico dell’ora del caffè non è lo stesso dell’ora della merenda. Tutti sono clienti abituali, si capisce, tutti si siedono sugli stessi divani, tutti bevono gli stessi bicchieri, prendono lo stesso bicarbonato , pagano con le stesse pesetas, sopportano dalla padrona le medesime impertinenze, eppure, chissà perché, la gente delle tre del pomeriggio non ha niente in comune con quella che arriva alle sette e trenta suonate; è probabile che l’unica cosa che potrebbe unirli sia l’idea, che tutti cullano in fondo al cuore, di essere, realmente, la vecchia guardia del caffè. Gli altri, quelli del dopo pranzo per quelli della merenda e quelli della merenda per quelli del dopo pranzo, non sono altro che gli intrusi che si tollerano, ma ai quali non si bada nemmeno. Sarebbe il colmo! I due gruppi, individualmente e come organismo, sono incompatibili e se uno dell’ora del caffè viene in mente di fermarsi un po’ quindi ritardare l’uscita quelli che stanno arrivando, quelli della merenda lo guardano male così male (…)
I personaggi si “agitano” e continuano a farlo anche settant’anni dopo la pubblicazione de L’alveare. Sono sopravvissuti, sono smarriti, sono gretti. Si mostrano in tutta la loro miseria ma anche nella loro purezza. Sì perché dopo la guerra questi protagonisti si muovono in uno scenario sporco, fatto di corruzione, prostituzione e violenza ma Cela con delicatezza (lo so, sembra impossibile) riesce a descrivere anche gli stati d’animo più puri:
Julita indugia un momento.
-Sai perché so di tabacco?
– Perché?
La madre è anelante, sarebbe bastato un capello per farla soffocare.
-Ebbene, perché sono stata molto vicina a un uomo e quell’uomo stava fumando un sigaro.
Dona Visi respira. la sua coscienza, tuttavia, continua a esigere serietà.
-Tu?
-Sì, io.
-ma..
– No, mamma, non aver paura. È molto buono.
– Molto buono!Molto buono!
Quell’ultima larva, addormentata, del desiderio, che ei vecchi sopravvive, cambia posizione nel cuore di dona Visi.
– Bene, figliola, io non so che dirti. Che Dio ti benedica…
A Julita tremano per un attimo le palpebre, per un tempo così breve che nessun orologio potrebbe segnarlo.
Da questo quadro emerge una Madrid immobile e al tempo stesso operosa, tutti si muovono, dicono o fanno qualcosa ma al tempo stesso subiscono la Storia. Un girone infernale e il ritratto popolo sta ancora facendo i conti con la Guerra Civile mentre quella Mondiale si affaccia sulle cronache dei giornali.
Sono tutti condannati? Mi piace pensare che non lo siano. Vorrei lasciare da parte il cinismo che emerge da queste pagine per sognare qualcosa di diverso. Librai, lustrascarpe, panettieri, gestori di locali, prostitute, figlie e madri, tutti imprigionati nella loro cella angusta ma tutti con almeno una possibilità di riscatto.
L’alveare è…
Immobile ed eterno movimento. Per un momento è stato come immergermi nell’atmosfera di Notte di Edgar Hilsenrath (LEGGI QUI la mia recensione). Attenzione, non sto paragonando i due testi diversi per stile e per argomento, ma la sensazione claustrofobica di trovarsi di fronte a brutture di ogni genere, è stata molto simile. Cela è chirurgico, percepiamo il suo cinismo e il suo giudizio, ma ci permette di guardare le persone, entrare nei loro pensieri e nei loro dialoghi… come giudicarli spetta a noi. Mi permetto di fare un altro parallelismo azzardato. Siamo usciti dalla pandemia che ci ha messo a dura prova e alcuni dei discorsi origliati e rubati tra i tavoli di un bar lasciano in me la stessa amarezza di quelli letti in queste pagine.
L’alveare è un libro da leggere, chiunque ami i romanzi a più voci, chiunque ami le storie senza etichetta in cui a parlare è per prima l’originalità, non può perdersi questo libro. Attenzione però, ci vorrà una bella dose di concentrazione per seguire un filo conduttore nascosto tra i personaggi, sempre ammesso che ci sia.
Lascia un commento