L'inferno di Treblinka
La trama
La più terribile fabbrica della morte nazista nel primo reportage dai campi, uscito nel 1944 sulla rivista «Znamja» e firmato dal più popolare e seguito corrispondente di guerra dell'Armata Rossa: Vasilij Grossman.
– Spaventoso –
L’inferno di Treblinka di Vasilij Grossman (Adelphi) è un racconto sconvolgente sulla fabbrica della morte ideata dai nazisti. Conoscevo il nome del campo ma non avevo realmente capito la differenza con gli altri campi di sterminio. Qui i prigionieri rimanevano tali per un giorno o per una manciata di ore. A Treblinka, neanche Dante avrebbe potuto immaginare un inferno così, si va solo ed esclusivamente per morire. Non ci sono attività di lavoro, si muore e basta. Il racconto di Grossman è chirurgico, non tralascia nulla. Dalle procedure nude e crude, passando per gli episodi di violenza, fino ad arrivare alle ipotesi: cosa hanno visto gli occhi vitrei prima di morire? Scene d’infanzia? L’orrore della consapevolezza? Il ghigno delle SS? O i momenti felici della propria vita? L’occhio sembra freddo perché ci regala dettagli che non vorremmo conoscere ma al tempo stesso percepiamo tutto il suo sgomento e… attenzione, il suo ottimismo nonostante l’orrore. Ma sto correndo troppo.
Grossman scrive questo reportage nel settembre del 1944, è corrispondente di guerra per la Stella Rossa e questo scritto venne addirittura utilizzato durante il processo di Norimberga. Inutile dire che le fonti di Grossman sono tutte di prima mano. Non ci accompagna dolcemente in questa storia dell’orrore, come potrebbe farlo?
Capire il suo stupore non è difficile però a volte con il passare degli anni sembra che il rischio di dare per scontato lo sterminio aumenti. Più quel momento si allontana da noi, meno ci rendiamo conto di ciò che è successo è atroce e forse inspiegabile.
Grossman ci porta indietro nel tempo. Quando i prigionieri politici, ebrei e chiunque fosse giudicato “non adatto alla vita” scendevano da quel treno e si trovavano di fronte all’inferno di Treblinka, un inferno che noi oggi non possiamo più vedere perché andato distrutto. Le persone arrivavano con coperte, fotografie, denaro e oggetti che racchiudevano la loro esistenza. E proprio lì cominciava il processo di disumanizzazione, forse peggiore anche della morte. Nudi, rasati, privati di documenti – il primo passo per far cessare di esistere qualcuno è toglierli il nome – venivano mandati nelle camere a gas. Sì, nient’altro se così si può dire. In mezzo stupri, violenze, crudeltà gratuite… Anche ne L’inferno di Treblinka ritroviamo le bestie in preda agli umori, proprio come li descriva Hannah Arendt: i soldati avevano slanci di generosità e pietà senza alcun motivo apparente (per donne e bambini soprattutto) e poi all’improvviso, appena si stancavano ritornavano al gioco crudele.
Uomini che tornavano dopo le licenze accanto alle mogli e ai figli. Gli stessi uomini che avevano ucciso, mutilato, strappato denti, carbonizzato bambini…
La crudele esperienza degli ultimi anni ci insegna che un uomo nudo perde ogni capacità di ribellarsi, si rassegna al proprio destino, insieme agli abiti dismette anche l’istinto di sopravvivenza e accetta la sua sorte come un fatto ineluttabile. Chi prima aveva una fame inesauribile di vita diventa passivo e indifferente. Eppure, a scanso di sorprese, in quest’ultima tappa della catena della morte le SS aggiungevano comunque un nuovo tassello – annichilivano le loro vittime, le riducevano in uno stato di shock psicologico.
Come?
Sfoderando all’improvviso, bruscamente, una crudeltà assurda, illogica.
Ho parlato di ottimismo e non perché sono diventata pazza. In queste ottanta pagine c’è l’orrore allo stato puro ma il nostro corrispondente ci ricorda che a restare umani sono i prigionieri: “restano tenacemente mille volte più umani delle bestie in divisa nazista che li circondano…”
Ne L’inferno di Treblinka ci sono passaggi che non avremmo mai voluto leggere, nella testa mi si sono formate nuove raccapriccianti immagini e l’eterno dubbio: è successo, siamo stati capaci di creare villaggi interi per uccidere, nascondere e cancellare la vita di milioni di persone, saremo in grado di rifarlo?
Grossman ci pone a distanza di settant’anni domande attualissime e le risposte che possiamo darci a me non piacciono particolarmente.
Nel 1943 un gruppo di detenuti mette in atto una disperata, quanto riuscita, rivolta. A sopravvivere soltanto un pugno di uomini mentre Treblinka viene data alle fiamme con l’illusione di poter cancellare il campo di sterminio dalla storia.
L’inferno di Treblinka è…
Spaventoso quanto vero. E dare una rinfrescata a certi temi grazie alle testimonianze di chi ha vissuto quel periodo sulla propria pelle, è necessario. Affinché nessuno dimentichi, affinché nessuno provi a considerare un essere umano meno di una bestia.
Questa volta non sarò io a dirvi perché leggere questo volume o perché ve lo consiglio. Prendo in prestito le parole di Grossman, convinta che bastino a convincervi.
Leggere di queste cose è durissimo. E credetemi, voi che leggete, non è meno duro scriverne. «Perché farlo, allora? Perché ricordare?» chiederà, forse qualcuno.
Chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità. Chiunque giri le spalle, chiuda gli occhi o passi oltre offende la memoria dei caduti. Chiunque si rifiuti di conoscere la verità non capirà mai con quale nemico, con quale mostro si è battuta fino alla morte la nostra grande, la nostra santa Armata Rossa.
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