Ormai lo sanno tutti, io amo follemente questo libro e questo autore (Ve ne avevo mai parlato????). Oggi vorrei darvi la possibilità di leggere il primo capitolo de Nel primo cerchio di Aleksandr Solženicyn (Voland). E’ un libro lungo, impegnativo e meraviglioso allo stesso tempo.
Le lancette traforate segnavano le quattro e cinque.
In quella morente giornata di dicembre, il bronzo dell’orologio sull’étagère si era già scurito del tutto.
I vetri dell’alta finestra occupavano tutta la parete. Dietro di essi, in basso, sul Kuzneckij most, si aprivano il frettoloso viavai della strada e l’ostinato affaccendarsi dei portinai, che spazzavano da sotto i piedi dei passanti la neve appena caduta ma già pesante e di un bruno sporco.
Vedendo tutto questo senza vederlo affatto, il consigliere di Stato di secondo rango Innokentij Volodin, appoggiato allo stipite della finestra, non smetteva di fischiettare un motivetto acuto dalle note lunghe. Con la punta delle dita sfogliava, senza far caso al contenuto, le pagine patinate e variopinte di una rivista straniera.
Il consigliere di Stato di secondo rango, tenente colonnello del corpo diplomatico, alto, stretto non nell’uniforme ma in un completo di stoffa leggera, sembrava più un giovane sfaccendato benestante che un funzionario del Ministero degli Affari esteri.
Era già arrivata l’ora di accendere la luce nell’ufficio, ma lui non l’accendeva, o di tornare a casa, ma lui non si muoveva.
Le quattro passate non rappresentavano la fine di una giornata di lavoro ma della sua parte diurna, la più breve. Ora sarebbero rientrati tutti a casa a mangiare, a dormire, ma dalle dieci di sera in poi le finestre dei quarantacinque ministeri pansovietici e dei venti repubblicani si sarebbero riaccese a migliaia. Dietro una dozzina di mura fortificate, un uomo soltanto di notte non dormiva e aveva insegnato alla Mosca di alto rango a vegliare con lui fino alle tre o alle quattro del mattino. Conoscendo le abitudini notturne del loro signore, una sessantina di ministri vigilavano come scolaretti in attesa dell’appello. Per non cedere al sonno, convocavano i loro vice, e i vice importunavano i capiufficio, gli archivisti sulle scalette spulciavano negli schedari, i segretari volavano per i corridoi, le stenografe spezzavano la punta delle matite.
Persino quel giorno, alla Vigilia del Natale della Chiesa occidentale (da due giorni tutte le ambasciate erano come ammutolite, nessuno telefonava), il lavoro notturno nel loro ministero sarebbe continuato.
Quelli, invece, avrebbero fatto due settimane di vacanza. Che bambocci ingenui. Che gran somari!
Con dita nervose, il giovane sfogliava le pagine in fretta e senza prestare attenzione, mentre dentro di lui una strana paura ora si sollevava e si riscaldava, ora calava e tornava a raffreddarsi.
Innokentij scagliò via la rivista e, con le spalle curve, cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza.
Telefonare o no? Doveva farlo proprio in quel momento?
Laggiù non sarebbe stato troppo tardi? Allora giovedì o venerdì?
Troppo tardi…
Aveva così poco tempo per rifletterci e assolutamente nessuno cui chiedere consiglio!
Possibile che esistessero mezzi per identificare una persona che chiamava da un telefono pubblico? E se avesse parlato solo in russo? Se non si fosse dilungato e si fosse allontanato subito? Era davvero possibile riconoscere al telefono una voce camuffata? Una tecnica del genere non poteva esistere.
Di lì a tre o quattro giorni ci sarebbe andato di persona in aereo. Era più logico aspettare. Più saggio.
Ma sarebbe stato troppo tardi.
Per la miseria… un brivido gli percorse le spalle non abituate a simili pesi. Sarebbe stato meglio non averlo scoperto. Non saperlo. Non avere scoperto che…
Raccolse tutto ciò che aveva sulla scrivania e lo portò alla cassaforte. L’agitazione era sempre più intensa. Innokentij chinò la fronte sulla cassa di ferro verniciata di rosso, chiuse gli occhi e riposò un po’.
All’improvviso, come se si stesse lasciando scappare gli ultimi istanti, senza nemmeno telefonare al garage per la macchina e tappare il calamaio, si mosse veloce, chiuse la porta con la chiave, che poi in fondo al corridoio restituì al sorvegliante di turno, si precipitò quasi giù per le scale, superando i funzionari locali, immobili nelle cuciture d’oro e nei galloni, si infilò al volo il cappotto e, calcato il cappello, fuggì fuori nell’umido calar della sera.
Quei movimenti veloci lo fecero star meglio.
I suoi scarponcini francesi, portati secondo la moda senza le soprascarpe, sprofondavano nella neve sporca ormai quasi sciolta.
Mentre attraversava il cortiletto del ministero chiuso su tre lati, passando accanto al monumento a Vorovskij, Innokentij alzò lo sguardo e trasalì. Aveva intuito un nuovo senso nel nuovo edificio della Bol’šaja Lubjanka affacciato sul vicolo Furkasovskij. Quel bestione grigio scuro di nove piani era una corazzata, e i diciotto pilastri si ergevano sulla fiancata destra come diciotto torrette d’artiglieria. Innokentij, solitaria e malsicura barchetta, veniva risucchiato laggiù, sotto la prua della veloce e pesante nave.
Anzi, no, non veniva attratto come una barchetta, era lui a lanciarsi verso la corazzata come un siluro!
Resistere era impossibile. Le sfuggì virando verso destra, lungo il Kuzneckij most. Accanto al marciapiede un taxi era pronto a partire; Innokentij lo prese al volo, fece cenno di proseguire fino in fondo alla via e ordinò di svoltare a sinistra, sotto i lampioni da poco accesi di via Petrovka.
Non sapeva ancora da dove telefonare in modo che non gli mettessero fretta, non gli stessero addosso, non sbirciassero dalla porta. Ma in una cabina tranquilla e isolata poteva farsi notare di più. Non era forse meglio in mezzo alla confusione, una cabina che fosse chiusa, nel muro? Mettersi a gironzolare in taxi, poi, con l’autista come testimone, era davvero da sciocchi. Si frugò in tasca alla ricerca di quindici copechi, sperando di non trovarli. Poteva essere la scusa per rimandare.
Di fronte al semaforo dell’Ochotnyj Rjad, si palpò ed estrasse subito due monete da quindici. Dunque era così che doveva andare.
Sembrò calmarsi. Pericoloso o meno, non c’era altra soluzione.
Ad aver sempre paura di qualcosa, come si fa a restare uomini?
Innokentij smise di pensarci: stavano percorrendo la Mochovaja, proprio accanto all’ambasciata. Dunque, era destino. Si avvicinò al vetro e allungò il collo: voleva vedere quali finestre erano accese. Non fece in tempo.
Superarono l’università; Innokentij indicò a destra. Come per fare un giro sul suo siluro e assestarsi meglio.
Balzarono verso l’Arbat, dove Innokentij consegnò due banconote e si incamminò per la piazza, cercando di moderare il passo.
Aveva la gola secca e la bocca talmente asciutta che anche bere non gli sarebbe servito a nulla.
L’Arbat era già tutto illuminato. Davanti al cinema Chudožestvennyj si era formata una lunga coda per L’amore della ballerina. Una foschia grigio-azzurrognola aveva quasi inghiottito la M rossa sopra la stazione della metropolitana. Una donna del sud, con la pelle scura, vendeva fiorellini gialli.
Il condannato a morte ora non scorgeva più la sua corazzata, eppure una lucida disperazione gli gonfiava il petto.
Doveva tenere a mente una cosa soltanto: non una parola in inglese. Men che meno in francese. Non poteva lasciare né piume né code ai segugi. Dire tutto il più in fretta possibile, e riappendere.
Innokentij camminava deciso e senza affrettarsi. Incrociò una ragazza, lei gli lanciò uno sguardo.
Poi un’altra. Molto carina. Augurami di sopravvivere.
Com’è grande il mondo e quante possibilità offre! A te invece non è rimasto altro che questo stretto burrone.
Una delle cabine di legno esterne era vuota, ma sembrava avere il vetro rotto. Innokentij proseguì fino alla metropolitana.
Lì c’erano quattro cabine ricavate nel muro, nessuna libera. Nell’ultima a sinistra un tizio qualunque, un po’ alticcio, stava riappendendo la cornetta. Sorrise a Innokentij, sembrava quasi sul punto di dirgli qualcosa. Entrato al suo posto, Innokentij richiuse con cura la porta di vetro spesso, che poi tenne ferma con una mano; con l’altra, a causa dei guanti di camoscio, infilò a fatica una moneta e compose il numero.
Dopo alcuni lunghi squilli, all’altro capo alzarono il ricevitore.
– È la segreteria? – domandò, sforzandosi di camuffare la voce.
– Sì.
– La prego di passarmi in fretta l’ambasciatore.
– Non posso farla parlare con l’ambasciatore – gli rispose qualcuno in un russo perfetto. – Motivo della telefonata?
– Allora mi passi l’incaricato d’affari! O l’addetto militare! La prego di non farmi attendere!
All’altro capo ci rifletterono per un attimo. Innokentij si ripromise una cosa: se si fossero rifiutati, non ci avrebbe riprovato una seconda volta.
– Va bene, la faccio parlare con l’addetto militare.
Gli passarono la linea.
Dietro il vetro a specchio, poco più in là della fila di cabine, le persone correvano, si affaccendavano, si superavano l’un l’altra. Qualcuno si era avvicinato e aspettava il suo turno con impazienza di fronte alla cabina di Innokentij.
Gli rispose una voce sazia, indolente, con un forte accento:
– Pronto. Desidera?
– Parlo con l’addetto militare? – domandò Innokentij in tono brusco.
– Yes, aviation – dissero all’altro capo.
Che altro doveva fare? Schermando la cornetta con la mano, in tono più basso ma deciso, con autorità Innokentij annunciò:
– Signor addetto militare! La prego di trascrivere quanto sto per dirle e di passare la notizia all’ambasciatore…
– Aspetti un momento – gli rispose quello senza fretta. – Vado a chiamare un interprete.
– Non posso aspettare! – ribatté Innokentij, sempre più sulle spine. (Ormai non si curava più nemmeno di alterare la voce!) – E non intendo parlarne con un sovietico! Non riattacchi! È in gioco il futuro della vostra nazione! E non solo! Ascolti, in questi giorni l’agente segreto Georgij Koval’ riceverà in un negozio di apparecchiature radio all’indirizzo…
– Io non capisco molto bene – ribatté con calma l’addetto militare. Se ne stava di sicuro comodo su un divano morbido, senza nessuno alle calcagna. Nella stanza, in sottofondo, si sentiva il ciarlare vivace di una donna. – Telefoni all’ambasciata of Canada , là capiscono meglio in russo.
Il pavimento della cabina gli scottava sotto i piedi e la cornetta nera con il pesante filo d’acciaio gli si stava quasi fondendo nella mano. Ma anche una sola parola straniera poteva rovinarlo!
– Ascolti! Mi ascolti! – esclamò, disperato. – Fra pochi giorni, in un negozio di apparecchiature radio, l’agente sovietico Koval’ riceverà importanti dettagli tecnici per fabbricare la bomba atomica…
– Come? In quale strada? – si stupì l’addetto militare, titubante. – Come faccio a sapere che dice la verità?
– Non si rende conto di cosa rischio? – rispose Innokentij, in tono secco.
Qualcuno bussò al vetro.
L’addetto militare taceva: forse aspirava una boccata dalla sua sigaretta.
– La bomba atomica? – ripeté con diffidenza. – E l-lei chi è? Mi dica suo cognome.
Nel ricevitore si udì un suono secco, seguito da un silenzio ovattato, senza né fruscii né squilli.
Avevano staccato la linea.
Nel primo cerchio
La trama
Costruito in uno spazio temporale ristretto, i tre giorni del Natale del 1949, e in un luogo chiuso, la saraska di Marfino, una prigione alle porte di Mosca dove scienziati di ogni tipo sono detenuti per crimini politici, il romanzo "Nel primo cerchio" - che arriva finalmente al lettore nella sua versione integrale, a mezzo secolo di distanza dalla prima traduzione italiana - potrebbe apparire claustrofobico. Ma le vite e i ricordi dei prigionieri allargano l'orizzonte da quelle stanze a tutta la città e all'immenso paese, regalandoci uno degli affreschi più appassionanti della letteratura, un'indimenticabile composizione di caratteri, luci, colori. La vita di una nazione. Paragonato da Heinrich Böll a una cattedrale, il romanzo della cattedrale ha la struttura e, come dice Anna Zafesova, "possiede il respiro della navata - il panorama multidimensionale della Russia staliniana, dalle campagne desolate ai salotti della borghesia rossa, e dalle segrete del gulag ai teatri moscoviti - e la vertiginosa guglia dei capitoli su Stalin, ma anche la moltitudine di angoli reconditi, cappelle, affreschi, statue che emergono dall'oscurità...
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